ADDIO KOBE
Cercare le parole giuste, senza sembrare troppo retorico o melenso, ma al contempo dare il giusto peso all’accaduto è cosa alquanto ardua. Sono le quattro del mattino di Lunedì e ogni tasto della tastiera sembra di granito mentre mi accingo a scrivere della morte di Kobe Bryant.
Quando un Grande dello sport arriva al livello che pochi eletti hanno raggiunto (Maradona, Senna, Pelè, Jordan, Alì, per citarne alcuni) diventano una sorta di patrimonio della umanità e al contempo un buon amico, qualcuno che tutti conoscono e a cui vogliono bene, come un vicino di casa di cui vantarsi perché è diventato famoso, ce l’ha fatta, ha sfondato.
E Kobe ce l’ha fatta alla grande. Dal palasport di via Guasco a Reggio Emilia, dove suo padre giocava per la Pallacanestro Reggiana, al Dolby Center di Los Angeles dove nel 2018 ha ritirato l’Oscar per Dear Basketball, cortometraggio basato sulla lettera d’addio al basket che pubblicò il giorno che appese le scarpette al chiodo.
Non mi soffermerò sulle mere statistiche e sulla lista dei trofei alzati perché sarebbe riduttivo. Come canta De Gregori, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore. Diciamo semplicemente che ha vinto tutto quello che si poteva vincere su un parquet. Nelle sue venti (20 !) stagioni nell’NBA è andato 18 volte all’All Star Game, ha vinto 5 titoli, 2 Olimpiadi e miriadi di altri premi, da mettere in bacheca insieme ad altrettanti record infranti.
A dare l’idea della caratura del personaggio ci stanno pensando i messaggi di cordoglio, i ricordi e i tributi che hanno inondato il web e le testate di tutto il pianeta. Su tutti i campi di pallacanestro d’America, appena appresa la notizia del tragico schianto, le squadre hanno commesso intenzionalmente l’infrazione dei 24 secondi, in onore del suo numero di maglia.
Il Pro Bowl di football si è fermato e tutto lo stadio ha cominciato a cantare il suo nome, mentre sui maxi schermi compariva la notizia della scomparsa del Campione, dell’Icona, dell’Uomo.
Lo piangono campioni di ogni sport, dal suo amico fraterno Shaquille O’Neal a Tiger Woods passando per il presidente Obama e tutta la NBA. Ma soprattutto lo piangono in tutti i campetti del mondo, da quello al parco Sempione a Milano fino a quello della palestra della Lower Merion High School, dove ha studiato una volta tornato in America (e dove, manco a dirlo, detiene ancora il record di punti segnati). Che tu sia Magic Johnson o che non sappia fare un terzo tempo con la sinistra, lo piangono tutti quelli che giocano o hanno giocato. Perché Kobe era per il basket quello che Diego Armando Maradona è per il calcio: una leggenda. E le leggende, fortunatamente, non muoiono mai.
Giuseppe “Full” Fiorito, giornalista, appassionato di sport a stelle e strisce e cronista per hobby, ha frequentato l’Isef della Lombardia e allena una squadra di Football