“Fummo lavati e sepolti, odoravamo di incenso. E dopo, quando amavamo ci facevano gli elettrochoc perché, dicevano, un pazzo non può amare nessuno…”
Cosi scriveva Alda Merini in terra Santa, esprimeva tutto il suo dolore nell’esperienza vissuta in manicomio, dove fra le torture si sentì vuota, non potendo esprimere le proprie emozioni. Era il 1947, quando la Merini incontra “le prime ombre della sua mente”e viene internata per un mese nella clinica Villa Turro a Milano, dove le viene diagnosticato un disturbo bipolare.
Dalla grande sofferenza, scrive dei testi meravigliosi, dove l’amore é al centro di ogni poesia da quello platonico al fisico , alla gioia di vivere e la malinconia della donna , infatti la raccolta vince nel 1993 il Premio Librex Montale.
Viene soprannominata la “pazza della porta accanto”, la poetessa ripetutamente nelle interviste ribadisce che i sentimenti e l’emotività l’hanno portata alla perdita del suo equilibrio.
“Non avrei potuto scrivere in quel momento nulla che riguardasse i fiori perché io stessa ero diventata un fiore, io stessa avevo un gambo e una linfa”.
Nel luglio del 1986 fa ricorso al reparto neuro dell’Ospedale di Taranto, i cui medici ben la conoscono poiché il marito l’aveva fatta visitare in precedenza ottenendone un quadro ben soddisfacente. Nello stesso anno riprende a scrivere e ad incontrare i vecchi amici, tra cui Vanni Scheiwiller, che le pubblica “L’altra verità. Diario di una diversa”.Il suo primo libro in prosa che, non è un documento, né una testimonianza sui dieci anni trascorsi dalla scrittrice in manicomio.
Un alternarsi di orrore e solitudine, di incapacità di comprendere e di essere compresi, in una narrazione che nonostante tutto è un inno alla vita .
Tutto viene raccontato con estrema naturalezza, innocenza la donna ritorna a un stato primordiale di pura innocenza, si meraviglia delle piccole cose, ma non smette mai di amare , scrivere e cercare gioia nei modi delle mille parole.
Una fitta ragnatela, i racconti della Merini in questi anni , si paragona a un fiore simbolo di rinascita ma anche di purificazione.
Quello che l’autrice milanese è riuscita perfettamente a esprimere è cosa rappresentavano i manicomi all’epoca: dei luoghi in cui relegare qualsiasi elemento che potesse minare l’ordine apparente della società.
Una piccola grande donna che dalle esperienze negative, attraverso i suoi scritti ci ha riservato un grande bagaglio letterario, di racconti dolci amari. Voglio concludere proprio con le parole di Alda: “La donna era soggetta all’uomo, e l’uomo poteva prendere delle decisioni per ciò che riguardava il suo avvenire. Fui quindi internata a mia insaputa, nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, ma quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso in quanto mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica ad uscire”.
Francesca Ricci