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Addio a Sergio Marchionne. Il manager aveva 66 anni

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L’uomo con il pullover se n’è andato alla sua maniera, discreta, silenziosa, veloce, come la malattia che se l’è portato via. Un mese fa era in piedi, oggi non c’è più. Funziona così nella vita. e quando hai un ruolo importante, perchè certi uomini generano valore anche quando sono diretti al camposanto e la Borsa ha le sue crudeli regole da rispettare. Con Sergio Marchionne, l’uomo con il pullover, se ne va uno di quei pezzi di l’Italia mai abbastanza apprezzati e compresi. Un figlio di un Carabiniere, orgoglioso delle sue radici italiane e delle sue origini umili, capace di coniugarle con la nostra fantasia alla formazione, all’organizzazione e al rigore contabile anglosassone che gli ha fatto realizzare miracoli di architettura finanziaria e societaria di cui nessuno lo accreditava.

CAPOLAVORI – “Marchionne chi?” È stato a lungo il refrain che lo ha accompagnato nelle stanze che contano. Già, non riusciva facilmente a far breccia nella simpatia delle persone, Sergio Marchionne. Ma era solo un problema di conoscenza superficiale, forse di un carattere introverso. Questione di ruolo, di feeling o magari chissà, dipendeva proprio da quel maglione anticonformista, rigorosamente scuro, che lo ha identificato nei suoi quattordici anni passati in Fiat, trasformata in FCA, lui che frequentava i salotti dell’alta finanza mondiale, decisamente impomatati e azzimati. Ma di certo, quello che ha fatto, quello che lascia anche in prospettiva, l’abruzzese concreto, è già da tempo entrato di diritto nella storia dell’industria, non solo italiana. E ci rimarrà per sempre. Salvare il gioiello di Casa Agnelli, indebitato fino al collo e sull’orlo di un fallimento ormai conclamato e salvarlo insieme alla Chrysler, altro nobile e decaduto costruttore, grazie ad un fusione benedetta da Barack Obama, rientra probabilmente nelle operazioni ai confini dell’impossibile. Eppure quel capolavoro datato 2009 non sarebbe stato possibile senza il primo, forse addirittura più difficile. Perchè quando cinque anni prima, Marchionne arrivò al Lingotto tra sussurri e grida, indicato da Umberto Agnelli, la Fiat era davvero con un piede nella fossa. Con un debito di quasi 14 miliardi e con il contratto con la General Motors tutto da rivedere dopo il matrimonio andato in fumo proprio a causa dei conti in rosso stabile. Tutta la concorrenza si aspettav di prendere la propria parte dallo smembramento dell’azienda amata e coccolata da Gianni Agnelli e invece il figlio del Carabiniere riesce a rinegoziare il debito con le banche, e sfruttando il contratto geniale di Paolo Fresco, invece di farsi pagare da Detroit riesca a incassare 1,55 miliardi di dollari per la rinuncia di GM a prendersi la Fiat. Ossigeno fresco per far ripartire la produzione, salvare stabilimenti, posti di lavoro e impostare l’altro miracolo. Ma non poteva bastare ai suoi detrattori in servizio permanente. “Con i conti è bravissimo – dicevano, tutti in coro – ma di macchine non ne capisce”. Certamente. Intanto, la Fiat inizia a sfornare la Punto, la nuova 500 e soprattutto Marchionne inizia quel lavoro certosino sulla qualità del lavoro negli stabilimenti produttivi che crea le basi del successo che sarà. E quando la crisi dell’auto iniziò a stringere il collo di tutti i costruttori, lui trova la strada per arrivare ad Obama grazie alla sua amicizia personale con il vice presidente Joe Biden, e a farsi concedere l’opportunità (a costo zero) di convincere i sindacati di Chrysler ad una fusione che, appunto, salverà entrambe le aziende. Questo mentre in Italia decide di uscire da Confindustria per avviare la stagione dei referendum interni con l’obiettivo di lasciare il contratto nazionale, troppo antiquato per garantire la produttività necessaria, e farne altri aziendali, più moderni. Con la vittoria ottenuta tra Pomigliano e Mirafiori riesce anche a far tornare la produzione della Panda, dalla Polonia proprio a Pomigliano e a creare quel gioiello che è Melfi, da dove usciranno la 500X e soprattutto la Jeep Renegade. E non finisce qui, perché l’autentica rivoluzione realizzata da Marchionne, quella che ha davvero salvato – insieme a tutto il resto – FCA, è averla resa azienda globale e globalizzata, capace di svincolarsi dai legami sentimentali con Fiat e puntare tutto sul marchio giovane e internazionale di Jeep che sta tenendo in piedi i conti di tutto il Gruppo. E questo, in un Paese come l’Italia, bloccato da sempre dai sui mille legacci politici, dalle pastoie dai limiti burocratici, come dimostrano la recente vicenda dell’Ilva e l’annosa questione di Alitalia.

IL PERSONAGGIO – Chi non ha conosciuto a fondo il genio cristallino di Marchionne, ritiene sia stato un uomo burbero e troppo duro. Ma chi lo ha frequentato a lungo da vicino, lo definisce una persona dotata di grande sense of humor, l’importante era che non fosse lui il soggetto dell’…umorismo. Eppure all’uomo con il pullover, al manager italiano di nascita (Chieti, 17 giugno 1952) e canadese di formazione, piaceva scherzare. Come quando lo scorso 1 giugno, giorno della presentazione del piano industriale di FCA, mantenendo l’impegno preso in precedenza, indossò la cravatta – che non gli ha portato particolare fortuna – per aver centrato l’azzeramento del debito (“non riesco più a fare il nodo, sono 10 anni che non ne metto una…”), la sua fantastica ossessione in questi anni torinesi. Anni vissuti nel suo personalissimo triangolo delle Bermuda, Torino-Detroit-New York, sull’aereo dove passava ore, giornate intere per raggiungere il cuore dell’impero FCA dove fosse necessario. Un manager errante, capace di lavorare incessantemente, che si alzava spesso intorno alle 4 del mattino e continuava a lavorare fino a notte fonda, avvolto nella nuvola perenne delle sue sigarette e accompagnato dalla musica jazz, con influenze afroamericane-rap di Bobby McFerrin, dalle carte fedeli compagne di viaggio e dalla recente passione per i buoni vini – in particolare il Brunello – raccolti nella villa alla Crocetta a Torino oppure nella splendida dimora sul lago a nord di Detroit, 12 stanze con un pianoforte suonato da solo grazie ad un computer. E a forza di volare, ne ha fatta di strada il figlio del Carabiniere Concezio, Maresciallo in Istria dagli anni 30 fino alla fine della seconda Guerra Mondiale dove si innamorò di Maria Zuccon, la mamma di Sergio. Insieme volarono con il ragazzo ormai quattordicenne per il Canada, destinazione Ontario, poi Toronto dove viveva da tempo la sorella di lei, Anna, profuga istriana a tutti gli effetti, fuggita ai tempi delle foibe con l’amico di Concezio col quale si era sposata. Qui il giovane Sergio inizia ad appassionarsi di libri, musica classica, lirica, in particolare Maria Callas, senza trascurare le partite a scopa e briscola all’Associazione Nazionale dei Carabinieri di Toronto dove ascolta con piacere Fabrizio de Andrè. Passano gli anni e grazie ad una memoria eccezionale si prende la laurea in filosofia tra i dubbi del padre (“vuoi finire a vendere gelati” gli diceva…) e subito dopo quella in legge, prima di conseguire un Master in Business Admnistration che gli permette di esercitare come commercialista, procuratore legale, avvocato ed espero contabile. È la rampa di lancio che lo fa decollare, prima in Canada con Deloitte Touche e Lawson Mardon e poi per la Svizzera, quella che poi diventerà la sua casa e dove attualmente risiedeva. Lui a Blonay nel Canton Vaud sul lago Lemano, con la nuova compagna Manuela Battezzato, dipendente Fiat; la prima moglie Orlandina e i due figli Alessio Giacomo e Jonathan Tyler nel Canton Zugo. Sì, la Svizzera. Perchè in questa storia c’è una strana coincidenza che coinvolge Sergio Cragnotti, ex presidente della Lazio, che con la sua banca d’affari nel 1991 rileva il 32% della Lawson Mardon (e il 100% dei diritti di voto) e sposta il baricentro degli interessi dell’altro Sergio nella Confederazione Elvetica. I due non vanno d’accordo ma Marchionne riesce a districarsi nel momento delicato della vendita dell’azienda ad Alosuisse-Lonza. Un percorso che porta Marchiane alla SgS, lì dove venne segnalato a Umberto Agnelli da un amico personale del compianto presidente della Juventus. Convinto in due incontri dalla preparazione e dalla serietà concreta di Marchionne, Umberto poco prima di morire lo fece nominare da Luca di Montezemolo a.d. del Gruppo Fiat dopo aver fermato la scalata dall’interno del predecessore Morchio.

VALORE PER TUTTI – Sì, un passo indietro: è il 1 giugno 2004. Quel giorno è iniziata un’altra storia per il LingottoTorinese e il regno sabaudo delle automobili, quella che abbiamo sinteticamente raccontato. La Fiat allora, lo ricordiamo di nuovo, contava 14 miliardi di euro di debiti netti. Oggi, dopo 14 anni di attraversamento del deserto, il debito non c’è più. Il Gruppo chiuderà il 2018 con 4 miliardi di liquidità, 5 di utile netto e 125 di ricavi. Senza contare che il valore che la Borsa dà a tutto il Gruppo si aggira intorno ai 62 miliardi, dieci volte di più di allora… E il piano per il 2022 parla di 45 miliardi di investimenti (9 sull’elettrico) e 25 nuovi modelli in uscita. Già, perchè dentro al vaso di Pandora di FCA, Marchionne ha messo molto altro. In fondo tutto sé stesso. E c’era qualcosa che lo rendeva orgoglioso, alla pari dell’obiettivo debito centrato: la quotazione in Borsa della Ferrari di cui era divenuto presidente dopo il duello rusticano con Luca di Montezemolo. Quest’ultimo che reclamava autonomia e indipendenza sul suo futuro dal predellino del Gran Premio di Monza 2014 e l’altro che da Cernobbio rispose: «Tutti sono importanti, nessuno è indispensabile», preludio alla rottura del rapporto, figlio anche di vedute diverse sul futuro del brand del Cavallino (produzione, modelli la stessa quotazione) e di un… amore mai davvero “sbocciato” tra i due, al netto di una indiscutibile stima reciproca. “Mi davano per matto – dice Marchionne -quando sostenevo che Ferrari andata trattata come si fa con i marchi del lusso” e oggi infatti sempre in Borsa la Ferrari da sola vale intorno ai 24 miliardi, solo 2 in meno della stessa, ben più grande Fiat. A guardarci bene, al netto di un patrimonio personale che qualcuno ha calcolato in 500 milioni, Marchionne ha mancato solo due importanti obiettivi. Quando cercò la fusione con Opel sapendo che la Merkel l’avrebbe ostacolato fin o alla morte, e infatti è finita dai francesi di PSA (!). E quando non è riuscito a convincere – gli annali dicono via mail – Mary Barra, CEO di G.M. ad incontrarsi per provare a rimettere insieme i due amanti – FCA e G.M, appunto. Qualcuno gli rimprovera anche di aver messo in cantina la Lancia, di aver impiegato troppo tempo a rilanciare l’Alfa Romeo e di aver sfornato troppi pochi modelli, per non parlare di quella lentezza ad avviare lo sviluppo tecnologico e la rivoluzione elettrica. Ma è ingeneroso, intanto perchè la “conversione” ad emissioni zero alla fine è arrivata proprio lo scorso 1 giugno. E poi perchè far quadrare i bilanci con pochi soldi, inventarsi di tutto per produrne e lasciare un’azienda praticamente pronta per essere venduta, e anche molto bene, era il compito del bravo dirigente d’azienda. E soprattutto oggi non è tempo di parlare di rivalità, di soldi, di modelli, di capolavori e fallimenti, piuttosto di rendere onore al figlio di un Carabiniere – ancora teneva ad essere riconosciuto come tale w ci scherzò anche con un cane addestrato nell’ultima sua apparizione romana al Comando romano dell’Arma, solo un mese fa – capace di diventare il manager che ha salvato la Fiat, la Chrysler, tanti posti di lavoro e che forse ci restituirà qualche altra gioia, rigorosamente sportiva e Rossa. Avrebbe voluto chiudere la carriera facendo il giornalista ha ripetuto più volte Marchionne. Lasci stare, Presidente, si riposi, ci creda, è meglio. E grazie di tutto.

Fonte: Pasquale Di Santillo per Corriere dello Sport.it

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