Quando ti ho visto la prima volta, un po’ mi sono spaventata. La tua aria tirata, quel tuo ergerti come un seme che rompe la terra e pretende il cielo, il tuo sorriso ironico che non smettesti mai, nemmeno quando, ormai sazio di desiderio, chinasti la testa vinto dalla fatica e pago, a tuo giudizio, del buon lavoro fatto.
E’ vero, ti avevo già visto su qualche rivista, in video, qualche volta disegnato sui muri della scuola, ma vederti dal vivo è stata tutta un’altra cosa.
Le mie amiche, quelle che avevano già avuto l’occasione di avere a che fare con te, mi avevano detto che eri un tipo sfacciato che, senza troppi preamboli, eri capace di entrare subito nella situazione, sempre che questa te lo avesse permesso. Ma se anche non avessi avuto un consenso deliberato, avresti tentato ugualmente di penetrare negli oscuri meandri a cui ogni mente maschile ambisce.
Fallo, fallo ancora, ti dissi quando di tipi come te ne avevo conosciuto già a decine. Alcuni, a dire la verità, avrei dovuto evitarli, tanto erano mesti e chini, tarchiati o ricurvi su se stessi, e non per la fatica, te lo assicuro. Mi piacque la tua aria strafottente, o forse fottente, il tuo rialzarti quasi subito se solo ti sfioravo con le dita, quando i miei baci davano il via a lamentazioni che il profeta Geremia al cospetto era un principiante.
Desiderai averti, eppure quando mi venivi offerto all’improvviso negavo di aprirmi, e il fuoco del desiderio si spegneva nell’attimo in cui mancava l’umida essenza che ti permetteva di crescere ancora di più, di forzare la strada della passione, di addentrarti nel mistero del piacere, di uscirne e entrarne a tuo piacimento, due, dieci, mille volte, fino a quando quel continuo andirivieni ti faceva girare la testa e vomitare.
Sentivo un rantolo quando accadeva… udivo un gemito… e tu, testa di cazzo, istantaneamente, ti rovesciavi sul flaccido addome e riposavi come un guerriero dopo l’ennesima e inutile battaglia, di una guerra che non vincerai mai, perché senza di me resti un verme moscio senza testa ne’ coda.