Il tumore con cui si muore nel nostro paese, non è una malattia del corpo, ha origini intellettuali, sorge e cresce tra l’ignoranza e l’arroganza, tra traffici illeciti a cui noi e i nostri morti abbiamo partecipato.
Ha partecipato mio padre, morto di questo male a 52 anni, e mia madre, che è durata di più, gli altri parenti a cui le cellule impazzite non hanno insegnato niente.
Mio padre voleva che diventassi un idraulico, e che mia sorella fosse impiegata o insegnante.
Mia madre leccava il culo a un certo politico per un posto alla regione, per mia sorella, abitava in via delle rose, ricordo.
Via delle rose è la strada dove ho abitato per venti anni, di rose non ne ho mai vista nessuna, solo il fetore dell’acciaieria di Casolla e quello dei cani morti e lasciati all’azione del tempo.
E parenti, lontani e vicini, che votavano i comunisti che non mettevano niente in comune, tranne la loro avidità.
Non c’è una stazione dei treni, i mezzi pubblici passano a orari tirati a sorte, la villa comunale è grande quanto il mio appartamento, degli alberi c’è solo il ricordo.
Eppure continuate ad eleggere il vostro tumore, a sindaco, ad assessore, a consigliere comunale con le elementari della serale, e hanno sempre la stessa faccia, faccia di defecazioni purulenti.
Il vostro è un destino randomizzato dalla vostra decisione di non esistere, nello squallore di un corso ghetto e vetrina, cento metri di vita e cinquecento di merda.
Avete erba alta sui marciapiedi, e culo basso per potervelo pulire con essa.
I nostri morti ci hanno insegnato che per continuare a morire basta vivere nel nostro paese.