Non si è mai piegato né spezzato, Sinisa Mihajlovic, di fronte a nessuno. Era il suo bello, la sua unicità, il suo orgoglio. Alla fine ha ceduto solo a una malattia assassina e inesorabile, contro cui ha combattuto per più di tre anni, ribellandosi con furia al destino, sfidandolo, cadendo e rialzandosi dopo due pesanti cicli di cure per la leucemia, chissà se presago della fine, ma indomabile sempre, circondato dalla sua meravigliosa famiglia: la moglie Arianna, i cinque figli, da poco anche una nipotina. Un paio di settimane fa lo si era visto per l’ultima volta, affaticato ma ancora lucido e divertente, alla presentazione del libro di Zdenek Zeman, a Roma.
E’ stato uno dei più straordinari combattenti visti sui campi della serie A, un uomo-squadra come ne sono esistiti pochi, e al tempo stesso il sinistro più portentoso che si ricordi, era davvero un ciclone il sinistro di Sinisa, quando sorvolava le barriere e si schiantava in rete: è tuttora suo il record di gol su punizione diretta in serie A, ben 28, a pari merito con Andrea Pirlo. Nè è stato le polemiche, anche dure, anche estreme, in cui è stato coinvolto, o in cui lo coinvolgevano, anche quando in tanti, troppi, negli stadi gli davano dello “zingaro”. Sinisa è stato un uomo che ha sempre caratterizzato le squadre in cui ha giocato, che non erano mai banali o sciatte, visto che avevano lui dentro il cuore. E sono state squadre che hanno lasciato segni: la Stella Rossa di Belgrado, addirittura campione d’Europa nel 1991 con un Mihajlovic appena 22enne, la Lazio di Eriksson che fu la più vincente di sempre nella storia del club, persino l’Inter dove chiuse la carriera, insieme al suo amico Mancini diventato allenatore, che in quei due anni ricominciò a vincere.
Nella sua Vukovar, dove i serbi come lui erano in minoranza rispetto ai croati, si scatenò l’inferno quando scoppiò la guerra civile in Jugoslavia, e Sinisa vide parenti in armi l’uno contro l’altro, improvvisamente, anche nella sua famiglia, e la sua città distrutta. La sua vita, professionale e non solo, cambiò quando arrivò alla Roma, e qui conobbe Arianna, sua moglie. Poi la carriera di allenatore, il Bologna e il Catania all’inizio, poi la Fiorentina, un anno alla guida della Serbia, la Samp, la grande occasione al Milan, il Toro, fino agli ultimi tre anni al Bologna. Dove gli arriva addosso un treno lanciato in corsa, la malattia. Lui la annuncia mostrando il petto, come sempre, e la affronta allo stesso modo. Si cura, e mentre si cura continua ad allenare la squadra, torna, la riprende in mano, finisce la stagione, sempre mostrandosi, senza paura, senza vergogna. È stato un esempio per tutti, e Bologna l’ha eletto cittadino onorario. Poi la leucemia si ripresenta, e negli ultimi mesi si era fatto tutto troppo duro. «È fatica alzarsi alle 4 e andare al lavoro alle 6, farlo tutto il giorno e non arrivare a fine mese. Questa è fatica vera. Essere capitano del Toro è solo un orgoglio e un piacere». Sinisa era questo qui, e un milione di altre cose ancora. Indimenticabili.