NAPOLI – “L’antimafia, adoperata con abilità e spregiudicatezza, può diventare un formidabile strumento per fare carriera, procurarsi il consenso del pubblico, acquisire crediti da spendere in qualsivoglia impresa”. Con queste parole Leonardo Sciascia il 10 gennaio 1987 sul Corriere della Sera tentò di spiegare la deriva di quelli che egli stesso definì i “Professionisti dell’antimafia”, un concetto tutt’altro che “storico” e che a distanza di 46 anni è ancora piuttosto vivo e attuabile.
Diverse sono state le mie attenzioni rivolte a questi nuovi profeti della legalità, a questi paladini della giustizia in salsa tengofamiglia e il modus operandi è sempre lo stesso. Appare chiaro come ci si appunti qualche medaglia al petto, anche grazie alla compiacenza del governo e di chi ne deve riconoscere il merito si capisce, ma come avviene in politica, anche quando si tratta di legittimare un simbolo della legalità è sempre meglio ricorrere ad una persona mite, moderata che abbia già contatti con i sottoboschi del proprio territorio o addirittura a uno yes man piuttosto che a qualche impavido che ha già fatto i conti con la sua vita e che la spende solo per poter migliorare quella dei propri figli, rifiutando, proprio per l’immagine sacra della lotta, onori e titoli.
Ed è così che queste persone, così come è avvenuto nella maggior parte dei casi ultimamente qui in Campania, si vedono investiti di tale merito con tanto di scorta grazie alla “spending review” della mafia, che da tempo ha scelto di sparare addosso a questi paladini fit fit e bengala piuttosto che far saltare in aria col tritolo chi si contrapponeva tra loro e i loro affari, come avveniva negli anni delle stragi. Un tempo si lodavano i morti e si cercava di formare le nuove generazioni facendo seguire i loro esempi come quelli di Giancarlo Siani, don Peppe Diana, Peppino Impastato, don Pino Puglisi etc. Oggi si lodano i vivi come Saviano, don Patriciello e altri giornalisti meno famosi ma non per questo meno “meritori”.
Qualcosa è cambiato anche nell’antimafia e dato che onori e titoli vengono dati anche a chi magari non riconosce l’alta nobiltà che essi richiedono, perchè la nobiltà d’animo deve essere innata, capita che seppur eticamente non si è predisposti a rappresentare tale ruolo in società allora ci si nasconde dietro allo scudo della legalità che la stessa onorificienza ti dona per diventare o avere la presunzione di sentirsi intoccabile.
Un esempio di legalità a fasi alterne è quello che si verifica a qualche collega di Arzano che seppur celandosi dietro l’aura dell’antimafia perché grazie ad alcuni petardi fattigli esplodere sul balcone della propria abitazione gli fu riconosciuto l’accompagnamento sotto scorta, non disdegna però di essere proprietario di un immobile abusivo riconosciuto tale fino dal 2006 quando da accertamenti condotti dal comune di Arzano emerse che gli immobili permanevano in uno stato di illeggittimità, anche per effetto di anomale istruttorie che rilevavano profili di illegalità: in particolare con la rilevazione di un abuso dove non risulta emanata la consequenziale Ordinanza di demolizione nonostante furono stati effettuati lavori abusivi.
Infatti il giornalista antimafia, del quale il Senatore di Forza Italia Franco Silvestro non si doveva permettere nella maniera più assoluta di denunciare per diffamazione, secondo un altro collega, perché rappresenterebbe un paradosso che un membro della commissione antimafia denunci un giornalista antimafia, ha anche tentato di raggirare il tutto fittando nel 2010 lo stesso manufatto abusivo ad una Farmacia e facendo dichiare allo stesso fittuario la volumetria di un altro immobile intestato a persone perbene ma che lo stesso giornalista tempi addietro ha denunciato sulle pagine del proprio giornale etichettandole come assoggettate alla camorra.
Insomma questa è la dimostrazione plastica che il titolo di antimafia riconosciuto dalle autorità non sempre corrisponde ad una condotta etica e morale illibata.
Così come altri colleghi non possono arrogarsi il diritto di tirare le orecchie a chi si è sentito offeso e cerca di far valere i propri diritti, nel nome di un titolo che in effetti, fortunatamente per chi abita in uno Stato di diritto, non equivale a garanzia di integerremità ma molto spesso, proprio come diceva Sciascia nella sua opera “Il giorno della civetta” ci mette al cospetto di veri e propri “quaqquaraqà”.