NAPOLI – Peccato che il significato attribuito al concetto non sempre sia quello corretto. La ‘sana competizione’ è quella che esiste tra gli sportivi. Si gareggia e ognuno ce la mette tutta per vincere ma, alla fine, si accetta la propria sconfitta e si esulta tutti insieme per la propria vittoria ma anche per quella altrui. Nella gara la sfida è con gli altri ma è soprattutto con se stessi, per superare i propri limiti, per migliorare i propri risultati ed essere soddisfatti dei progressi. Non è esattamente quello che vedo oggi tra molti ragazzi e, purtroppo, tra tanti genitori. L’obiettivo sembra essere solo quello di vincere e di primeggiare. Le sconfitte non vengono accettate, le vittorie servono a sentirsi migliori degli altri.
A cosa porta la competizione?
La competizione acquisisce valore positivo se l’interlocutore è proprio la persona in questione, perché così diventa funzionale al riconoscimento di limiti e virtù – quindi alla propria conoscenza –, all’affermazione del sé e delle sue capacità e al superamento della frustrazione.
Lo sport è importante ed è altrettanto importante raggiungere gli obiettivi, senza falsi buonismi e pietose bugie. L’importante non è partecipare, è mettere a frutto i propri talenti attraverso l’impegno. Solo così verrà valorizzata la partecipazione e la competizione, nella sua accezione più genuina.
“Mi piace fare le partite, soprattutto quando vinco io!
Però anche se perdo, mi diverto lo stesso.
E se perdono i miei compagni, io li consolo.”
Sono frasi che, nell’ingenuità dello stile da bambino, ci aprono un mondo, quello che spesso ci ostiniamo a non voler vedere. La competizione sana non è un valore innato nel bambino, ma va insegnata attraverso l’esempio concreto, perché in molti casi le parole non bastano. La competizione di per sé non è negativa o positiva. Diventa un fattore costruttivo nella misura in cui serve ad imparare a gestire vittorie e sconfitte, insieme.
Competizione sana significa condividere la gioia di una vittoria o la frustrazione di una sconfitta, senza abbattersi davanti al fallimento. E’ un concetto che riguarda il gruppo e, implicitamente, richiede condivisione.
Al contrario, la rivalità, tra due soggetti o gruppi, implica un coinvolgimento psicologico diverso ed una generalizzazione della posta in gioco: non più l’obiettivo comune, ma l’accaparramento di risorse, di status. Non significa vincere, ma primeggiare, ed è molto diverso.
Ho avuto modo, purtroppo di assistere a mamme che anche di fronte ad una nota generica della classe, invece di insegnare ai singoli figli ad aiutare chi non ce la fa a primeggiare, hanno piuttosto cercato di evidenziare il proprio figlio, definendolo, tra le righe, il migliore.
Se a casa provassimo ad insegnare ai nostri figli che anche gli amichetti a scuola vanno aiutati, questi da grandi sarebbero dei ” Grandi ” genitori.