SALERNO – Giuseppe è un uomo di settantadue anni. Gestisce un grade ristorante su due piani nel centro di Camerota (SA). Avrebbe dovuto seguire il terzo anno di superiori quando lasciò la scuola per un sogno più grande.
Appese il grembiule all’attaccapanni, posò le matite ben temperate, sigillò i quaderni nello zaino e andò per strada nell’intento di vendere i suoi libri per racimolare qualche lire che potesse essergli utile nel grande viaggio.
La meta? Il suo ristorante. Certo, non aveva nulla con cui costruirlo se non una grande immaginazione. Aveva già scelto la carta da parati ideale e la fantasia delle tovaglie. Cominciò a lavorare come lavapiatti, poi cameriere, assistente cuoco, cuoco fino a quando non risparmiò abbastanza danaro perché il ristorante per cui lavorasse fosse il suo.
Rammenta ancora con orgoglio quando fece stampare il nome del suo locale sulle divise dei dipendenti. Continuava a mirare e girare la cucitura tra le mani. “E’ stato uno dei giorni più belli della mia vita” confessa. Sono passati quarant’anni e nulla è più lo stesso.
Giuseppe non ha più nessun dipendente nella sua sala, l’unica ad aiutarlo è sua moglie Giustina. Il locale è semideserto e lui ci saluta con uno scorbutico “non ho tempo”. Attendiamo il termine del pranzo per rivolgergli qualche domanda e scopriamo con piacevole sorpresa che l’uomo maleducato che ci aveva aperto la porta, era invece a modo e sorridente ma estremamente stanco.
Il motivo? Il suo sogno è diventato un incubo. “Ho superato tutti gli ostacoli che hanno barricato il mio cammino, adesso sono davvero esausto. Ho superato la crisi degli anni ’80, quella degli anni 2007-2008 e non solo.”
La domanda, dunque, sorge spontanea pensando che sia proprio lo stop dell’economia e dell’esercizio delle attività commerciali a rasentare la maggiore fonte problematica per il titolare del locale. Eppure la risposta che ci viene data è tutt’altro che affermativa.
“Spesso sento parlare al Tg, pensano che il problema sia la crisi post pandemia, la realtà è che tale situazione nient’altro ha fatto se non alimentare qualcosa che già era in atto prima del Covid-19. Parlo dell’assenza di personale disposto a lavorare. Non ci sono italiani desiderosi di lavorare non solo nel mio ristornate ma in tutti quelli della zona.
Ecco, quindi, che mi trovo a correre tra una portata e l’altra facendo la staffetta tra cucina e tavoli. Ho settantadue anni e non ho più le forze per continuare così. I clienti sbuffano e attendono impazienti. Possono accontentarsi di un servizio scandente una volta, per la seconda scelgono un altro ristorante. Gli unici a tornare sono quelli che sono disposti ad aspettare il girotondo di un povero vecchio pur di mangiare un piatto degno di esser chiamato tale.
Non si tratta di disinteresse all’attività lavorativa, ma di mancanza del bisogno. Se possono tranquillamente ottenere uno “stipendio” stando da casa fino a 780 euro al mese, perchè mai dovrebbero venire a lavorare qui? Per essere pagati meno? Per spendere soldi in benzina? Io non lo farei.”
Si spiega in queste due parole il malessere del ristoratore: “reddito di cittadinanza”, arma di battaglia del M5S che spesse volte è stato messo in discussione, altre idealizzato come “intoccabile” dagli stessi autori.
Alla domanda “cosa ti auguri che succeda? la risposta è immediata: “Spero che i giovani comprendano il valore del lavoro. Non importa “quanto”, ma “come”. Preferirei vivere sotto i ponti, che guadagnare sulle spalle degli altri pur avendo tutte le carte in regola per farlo. E’ anche una questione di morale. Forse le generazioni sono cambiate, ma le emozioni sono le medesime. Bisogna solo provare a capire quanto sia gratificante guadagnarsi il pane per non smettere più, almeno questo è quello che è successo a me”.