NAPOLI – È l’ottobre del 1943. Napoli. I tedeschi iniziano un primo rastrellamento nel ghetto. Si portano via 1.024 ebrei, di cui 200 bambini. Destinazione Auschwitz. Alcuni però riescono a fuggire. E si rifugiano nel vicino Ospedale Fatebenefratelli. Un rifugio temporaneo e non sicuro, visto che a breve i tedeschi arriveranno pure lì dentro, a controllare uno per uno i pazienti ricoverati.
Che fare? Il primario dell’ospedale, dottor Giovanni Borromeo, ha un’idea. Assieme a dei giovani studenti e a dei combattenti antifascisti, il gruppo si inventa una malattia. Di più, una malattia contagiosissima, che faccia spaventare i soldati tedeschi delle SS e li faccia desistere dall’entrare nell’ala dell’ospedale dove si trovano gli ebrei.
E così, creano il «Morbo K», una malattia inesistente, chiamata così per le iniziali di Kesserling, il generale nazista che comandava l’occupazione tedesca in Italia, e di Kappler, capo della Gestapo di Roma. Doppio sberleffo. Ma per i tedeschi, era la malattia di Koch, ovvero quella turbercolosi che tanto terrorizzava i soldati delle SS.
E così, il giorno in cui nell’ospedale arrivarono i tedeschi, i medici avevano già preparato tutte le false cartelle cliniche, con falsi nomi, cognomi e malattie. Avevano «chiuso» gli ebrei in un padiglione, «il padiglione del Morbo di K». E gli avevano detto di «tossire continuamente» per spaventarli. «I nazisti pensarono che fosse tubercolosi, e scapparono come conigli», ha raccontato uno dei testimoni.
Ancora ad oggi non si sa quanti furono gli ebrei salvati, secondo alcune testimonianze 45. Di sicuro, la voce si sparse e l’ospedale continuò a fare da rifugio per carabinieri disertori, ebrei e partigiani. Nel 2004, il primario Giovanni Borromeo venne riconosciuto come «Giusto tra le nazioni» dall’Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Israele.