La tratta di esseri negli ultimi anni è salita agli onori della cronaca attraverso fatti e testimonianze delle vittime. Un orrore senza precedenti con la complicità dei clan campani che merita un serio approfondimento. Secondo le ultime indagini della Dia, tale pratica, ancora avvolta nell’ombra in larga parte, costituisce un crimine transnazionale, in tal senso definito dall’art. 3 del “Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di donne e bambini”. La sua definizione comprende il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento, sessuale o lavorativo.
Stando a quanto emerso nel corso di recenti inchieste, coordinate da diverse Procure Distrettuali nazionali, il “trafficante” delle vittime di tratta è parte di una “rete” criminale transnazionale radicata nei Paesi di origine dei flussi migratori, ove realtà caratterizzate da estrema povertà o da contesti socio-politici instabili diventano fattori di attrazione per le organizzazioni criminali dedite a tali attività illecite. Si tratta di sodalizi strutturati in “cellule” operanti nei singoli Paesi interessati dalla “filiera” criminale, ognuna delle quali interviene all’occorrenza, occupandosi di una determinata “fase” che caratterizza la tratta. Il reclutamento avviene normalmente nel Paese di origine. Le giovani donne – reclutate in buona parte nello Stato di Edo, intorno alla capitale Benin City, ove sarebbero presenti articolate strutture operative e logistiche – risentono della situazione di assoluta precarietà economica unita alla speranza di trovare all’estero migliori condizioni di vita, inducendo spesso le proprie famiglie a rivolgersi a persone collegate con le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico. Il contatto e l’avvicinamento nonché l’opera di convincimento avvengono attraverso una figura femminile, la madame o mamam che ha la funzione di reclutatrice nel prendere contatto, convincere le ragazze interessate all’espatrio, con false promesse di lavoro, per poi consegnarle a chi materialmente le porterà in Europa e, quindi anche in Italia.
La madame assume così un ruolo centrale, stabilendo un legame molto stretto con le giovani donne, basato su riti di iniziazione chiamati “juju”, simili al voodoo, propri della cultura yoruba con vero e proprio giuramento di fedeltà all’organizzazione e alla madame di riferimento pena la morte anche dei propri cari. La durata media del viaggio effettuato via terra risulta essersi allungata a causa delle lunghe rotte africane che si concludono nei Paesi rivieraschi. Da lì le vittime sono poi introdotte clandestinamente in Italia e costrette, con minacce e violenze fisiche e psicologiche, ad esercitare il meretricio lungo le strade delle nostre città, sotto lo stretto controllo dei membri delle organizzazioni. Il sistema criminale nigeriano si fonda sulla schiavitù da debito (debt bondage) che obbliga le vittime a sottostare a gravi forme di sfruttamento per poter saldare cifre molto alte di denaro in cambio della loro libertà. Nella maggior parte dei casi, poi, il debito continua ad aumentare a causa dell’obbligo di sostenere costi inizialmente non pattuiti (per l’affitto del posto letto, per le bollette, per il cibo, per i vestiti). Le malcapitate sono costrette a pagare il prezzo, alla madame di riferimento, anche per l’utilizzo del luogo pubblico di meretricio, in gergo chiamato joint.
Il ricavato consente alla madame di ricevere velocemente il plusvalore dell’investimento effettuato con l’acquisto delle donne e di reinvestire nuovamente il capitale, attraverso anche un ricambio continuo di ragazze ampliando cosi il proprio raggio di azione. Le ragazze in sostanza dipendono in tutto dalla madame, che costituisce l’universo intorno al quale gira il loro mondo, dalla possibilità di permanere nel nostro Paese a quella di riscattarsi dalla schiavitù e di intraprendere l’attività di sfruttamento in concorso con la carnefice, fino alle necessità quotidiane di vitto e alloggio. Contrariamente a quanto accaduto per altri gruppi etnici, a distanza di 20 anni dal loro primo arrivo le donne nigeriane continuano ad essere tra le principali vittime di tratta sfruttate in Italia. Per esse, poi, il meccanismo di denuncia e protezione sociale previsto dalla legge non sempre risulta attrattivo, nella convinzione che il loro sfruttamento è a tempo (il tempo cioè di saldare il debito) e che, quindi, non è conveniente denunciare i propri aguzzini e rischiare, conseguentemente, la propria vita.
Tuttavia, nel nostro Paese molte donne, negli ultimi anni, hanno avuto il coraggio di denunciare gli abusi e le costrizioni subite grazie all’applicazione del già richiamato articolo 18 del Decreto Legislativo n. 286/1998 (Testo
unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) che prevede il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale al fine di “consentire allo straniero di sottrarsi alla violenza ed ai condizionamenti dell’organizzazione criminale e di partecipare ad un programma di assistenza ed integrazione sociale”. Dal 2014 al 2019 sono stati rilasciati, complessivamente, 580 titoli di soggiorno per motivi umanitari. E non è finita qui …