Sottotitolo: non c’è sale nella chimica dell’idiozia !
C’è un limite oltre il quale l’ipocrisia diventa più che insulto, inaccettabile vessazione dell’intelletto: nello specifico, quello che si manifesta nella sua forma più ancestrale ( espressione primordiale meta-istintiva che accomuna un archeobatterio all’ultrà del calcio ). Che per fare il calciatore si richiedano buoni piedi o grosse mani, non certo un gran cervello, è cosa tacita: ma qualche volta puoi metterci la testa, anche se non ti aspetti un cross …
Gli uomini veri li vedi nella sconfitta, che ad esser superbi nella vittoria è impresa puerile. L’invito a mangiare patatine rimanda a quel marchio di cui Il buon Gigi è testimonial: quella della nonna, che avrebbe dovuto friggere di meno e menare qualche sberla in più, che poi si cresce capricciosi e viziati … L’arbitro, in fondo fa il suo lavoro, decidere in qualche frazione di secondo: e quella decisione farà gioire alcuni e scontenterà inevitabilmente gli altri. Anche questa è una regola del gioco… della vita. Andiamo al fattaccio: Benatia ( altro fine intelletto strappato al grembo dell’agricoltura, che paragona un rigore fischiato contro ad uno stupro… ) è in netto ritardo; placca a uomo Vasquez, lo travolge letteralmente impedendogli un comodo appoggio da pochi passi; però spizzica anche la palla: quanto basta per fare sentenziare, al corifeo Cesari che l’arbitro “infedele” si sia macchiato di un grave delitto. E lo studio televisivo inscena la Parodo di una tragedia surreale. Mentre il Capitano è ancora negli spogliatoi, a scegliere con certosina irresponsabilità i suoi epiteti contro l’uomo che non ha cuore, ma solo spazzatura, tocca al presidente della res(poco)pubblica iuventina, fare la sua apparizione, grottesca epifania della dolosa disfatta: con un’enfasi quasi liturgica, invoca l’introduzione del VAR per la competizione europea. Ma come, non si erano detti contrari, attraverso la voce del tecnico e quella stentorea del furente uomo-simbolo che si dichiarava, agli esordi incerti, contrario a quell’aggeggio “insensato” che avrebbe ridimensionato il ruolo dell’arbitro ( è questione di sensibilità del giudice in campo, che il regolamento va applicato col cuore…) dilungando oltremisura la durata delle partite e compromettendo il buon esito dello spettacolo? Che dalla prosopopea dell’arroganza al patetismo è un attimo … Prendiamocela pure col designatore degli arbitri, il nostrano Collina: assumersi le responsabilità di una mancata riforma del sistema manco a parlarne. Perché il calcio moderno, attività affaristico-imprenditoriale, agli antipodi da quell’aurea romantica per antonomasia dello sport, richiederebbe un organismo autonomo che designi dei veri professionisti, in base ad un sistema meritocratico (e non politicizzato) : non certo garanzia di una conduzione di gara sempre impeccabile (il fattore umano è pur sempre aspetto aleatorio), ma in una misura che potrebbe nel contempo escludere fischietti mediocri e, ancor meglio, giudici poco obiettivi (quelli che ci mettono troppo cuore…): ridurre in soldoni (tanti…) il sospetto malcelato e forse non infondato, che non sempre i direttori di gara agiscano in buona fede. Per nulla decoubertiano il rampollo di casa Agnelli : la sua è una formidabile lezione di acredine viscerale. Si coglie il dettaglio in cui alligna il diabolico: non sembra si invochi proprio l’imparzialità, bensì quel conforto di una conduzione di gara benevola, secondo un costume consolidato “dalle nostre parti”. Poi ri-tocca al buon Gigi, rendere memorabile il suo addio alle scene della massima competizione: Gigi, quello che in testa pare abbia più forfora che sale, che lo stile si riduce a questione di coiffeur ( altro giro, altro spot…) che non si capisce, a dire il vero, perché non limitarsi a incensare queste celebrità del circo per i numeri mirabolanti, e si insista a farli parlare: stucchevole sagra dell’ovvietà e della formula di rito stereotipata, dell’ipocrisia spicciola e della parola fasulla o peggio, come nella fattispecie, della cazzata iperbolica. Ma bisogna pur nutrire quella forma ancestrale di cui sopra … Insomma non è ancora chiaro cosa pretendesse il buon capitano: che ci fosse un accomodamento per premiare lo sforzo in campo, che si chiudesse un occhio pareggiando un episodio sfavorevole della partita d’andata ( non solo cuore, ma anche memoria), che gli fosse concesso di strepitare, tampinare, insultare il direttore in campo, proprio come regolamento NON prescrive, perché avrebbe guadagnato per meriti sportivi pare, l’immunità alla carriera. Qualunque cosa frullasse per la testa del portierone di una cosa siamo ben certi: non è bastato uno shampoo, neanche di quel prodotto che reclama e pare faccia miracoli con la cute. Una pletora di beoti (in senso Pitagorico) plaude in studio allo sfogo: giornalisti sportivi, commentatori, opinionisti … il club del fancazzismo a pieno rango e in bello spolvero: che ci sarebbe di che vergognarsi per intere generazioni, che un uomo serio, che pretende di rappresentare una nazione, seppur in ambito sportivo, dovrebbe aver sentore del decoro. Ma del resto, quel che vale per gli artisti val doppio per gli imbonitori. Si insiste a farli parlare, che c’è magari che li prende pure sul serio: e niente, sconosciuto quel pudore che invoca di tacere, quando non c’è alcun che di serio da dire! Ma anche questa è buffa acrobazia: spettacolo misero in uno spettacolo già modesto. Il segno dei tempi, che la lingua è già morta sulla tastiera dello smartphone, il gusto decesso in uno scatto squallido e l’intelletto, ahinoi, seppellito in un hashtag lanciato a cazzo. Della poesia dello sport non resta che l’impudicizia di una prosa volgare: Capitano o mio Capitano….