Di Maio: l’antesignano che studiava da generale.
La leadership di Luigi Di Maio nasce da lontano. Bisogna tornare ai primi giorni di questo mandato: quando un Peppe-Epimeteo distribuisce gli incarichi vuole per Luigi la carica di Vice Presidente della Camera mentre concede a Roberto la presidenza della commissione di vigilanza RAI ( una torre d’avorio nel cimitero degli elefanti ); a Dibba toccano il megafono e un tweet per i followers. I ruoli di capogruppo pro-tempore di una delle due camera o l’impegno in una commissione furono solo dei contentini elargiti ai più ricalcitranti. Neanche il fuoco della visibilità e l’arte della comunicazione in tv, rubati al “Principio dell’Eguaglianza” e al “Rigore della Coerenza” ( solo divinità minori ) da un Casalino in versione “Prometeo GF” avrebbero mai più reso gli uomini uguali nel “creato sintetico” della Casaleggio Associati. Quel ragazzo che già si distingueva per intelligenza politica, versatilità e spiccate capacità relazionali, rappresentava la prima scelta. “C’è del buon materiale umano ( grezzo) su cui lavorare”, avranno pensato Grillo e Casaleggio; giovane, eppure non sprovveduto, faccia pulita e rassicurante, buon eloquio, garbato nel convivio e dosato nelle esternazioni a favor di popolo, aziendalista indefesso e molto, molto determinato: un uomo su cui costruire il futuro successo. Sarebbe bastato circondarlo delle persone giuste, esaltare progressivamente la sua personalità attraverso una scientifica visibilità, lavorare di PNL ( chi meglio della sua attuale compagna) per restituire al panorama politico un retore sempre efficace- al netto di fisiologiche sbavature- convincente nei talk show e imprescindibile per ” l’epigono del giacobinismo senza enciclopedia”. Dunque un premier fatto in casa, mai realmente scelto dalla gente -l’apoteosi di un bricolage socio-politico- vista la pochezza dei contenuti e la penuria di menti pensanti su cui si è preteso di costruire un barcollante”edificio meta-sociale” ( qualche buona intenzione, tenuta insieme da una malta di refusi ideologicamente annacquati ). Negli ultimi due anni si assiste ad una brusca accelerata: una vera “faticaccia” portarlo in giro, per ottenere il placet di confindustria, dei poteri finanziari, dei salotti politici; persino allo stesso tavolo con la”diabolica trilaterale”, origine di ogni male. Chi sogna di scalare Palazzo Chigi non può essere inviso ai poteri forti: questa è l’ineludibile ratio dell’uomo che aspira al potere. Dunque a lavorar di cesello, per guadagnare il consenso di chi realmente orienta, in un Paese massonico, gli esiti delle “consultazioni democratiche”: un colpo pacifico ( l’Italia deve restare nella Nato) un colpo allo spread (non si discutono l’Euro, né l’Unione), un colpo tacito ( “Io non ce l’ho con le lobby”) un colpo a destra (i migranti arrivano su “I taxi del mare”).
Da “Delfino di Grillo” a “pangasio delle rete” .
Per Di Maio, già leader indiscusso e acclamato dai selfisti, uomo-immagine incensato a furor di social, non è stato sempre tutto facile: ha vacillato sotto i duri colpi di De Luca, Saviano e certa “stampa di partito” che ne svelavano inesorabilmente le contraddizioni e le debolezze, ha rischiato di cadere rovinosamente per una serie di “omissioni” , prima a Quarto poi a Roma ( l’uomo che chattava a sua insaputa n.d.r.), ma ha sempre trovato la forza di rialzarsi: l’incondizionato amore degli “onesti”, due braccia forti-dietro le quinte- a cui aggrapparsi, le parole giuste per ricucire lo strappo con Grillo; da sempre osteggiato, con scarsa efficacia, dalla corrente ( col tempo ridotta a spiffero ) dei duri e puri, i fichiani, quelli delle origini, ” che la politica non è un mestiere”, “che bisogna evitare la personalizzazione” , ” che non siamo onorevoli, ma portavoce al servizio del cittadino ” , “che contano le idee, non l’uomo” che… bla bla bla; insomma, quel decalogo di buone intenzioni con cui si è lastricata la strada che porta dritti dritti all’inferno di un nuovo partito (nella peggior accezione possibile che possa balenare nella testa di un grillino ai primordi). Perché la politica è una cosa serie, ( anche se spesso i suoi interpreti sono dei pagliacci patetici e la platea ricorda più un’osteria di zotici beoni che un colto parterre): al netto delle corbellerie che si raccontano per coinvolgere ludicamente il simpatizzante, quando c’è da decidere su cose serie non c’è il tempo per un “democratico cazzeggio”. Esigenze di copione richiedevano comunque di inscenare una piccola (e non insolita ) farsa, che insomma “non si dica in giro che le nostre scelte sono calate dall’alto”. In pochi giorni viene tirato su lo spettacolino, con un regolamento capestro ( qualcosa di più simile ad una gara d’appalto a misura dell’azienda già designata, che a una consultazione popolare ) e sette controfigure evanescenti, quanto basta per poter argomentare all’indomani con la solita spocchiosa logica della post-verità ( non esistono consultazioni serie ma solo “primarie fiction”). Più che una votazione in rete, un semplice test per misurare il “grado di resilienza della coscienza collettiva” ( la capacità cioè di sopportare gli urti n.d.r): solo all’apparenza dunque un escamotage patetico, piuttosto il buon viatico per una efficace terapia di governo a base di necessari compromessi e amara real politik, dopo l’illusorio placebo populista.
I motivi del dissenso.
Ci si chiede, dunque, cosa abbia scatenato un certo malcontento in quella frangia di portavoce, attivisti e simpatizzanti ( minoritaria ) che non si riconosca in questa scelta da tempo annunciata e fin troppo scontata. Anche in considerazione del fatto che nessuno dei potenziali competitors abbia avuto la volontà e/o la forza di reagire ufficializzando la propria candidatura. Pur non escludendo che, in una logica di mediazione interna ( o se preferite aziendalista), siano addivenuti tutti a più miti consigli, proviamo a dare una interpretazione di questa resa incondizionata all’investitura di Di Maio. Per Roberto Fico è stata una mera questione di sopravvivenza; di maggior spessore e indubbia cultura, gode di una popolarità risicata: mai realmente incisivo sul piano mediatico o decisivo sul piano politico, avrebbe probabilmente raccolto i cocci di una disfatta epocale che ne avrebbe definitamente minata un’autorità già incrinata ( da attribuirsi più ad una nostalgica eredità che ad una reale forza del consenso tra gli eletti). Dibba è piuttosto uomo immagine, fenomeno gioioso da copertina ( e penso a Linus…), cassa di risonanza con un subwoofer a palla: uno che da il meglio di sé su un palco, non al tavolo della politica, uno che ci sta bene come poster nella cameretta di adolescenti che sbocciano all’amore, inadeguato col tristo doppiopetto, nel “salotto buono” di lobbisti e finanzieri. “L’uomo del sorriso” è l’idea che seduce nata dalla fantasia di un sognatore di nome Gian Roberto. Dibba forse neanche esiste…
Solo un racconto o qualcosa di più?
Allora nulla questio, e l’analisi si potrebbe ritener conclusa! Il problema invece esiste eccome, e mette in gioco l’esistenza stessa del 5stelle, o almeno di quel che resta dell’idea originaria: nasce dalla decisione di far coincidere la figura del premier con quella di capo politico. Significa, in soldoni, consegnare le chiavi del partito a Di Maio, facendo del predestinato un uomo solo al comando, in perfetto stile renziano: questo il timore dell’ala “purista” ,di coloro che già contavano di reggere con un loro uomo di rifermento ( Fico, Sibilia ), o magari donna ( Lombardi) la segreteria del partito, e avere in essa un contrappeso al potere debordante del Premier. La cosa forse non sarà parsa una buona idea a Grillo: creare di fatto un duopolio potrebbe condurre alla drammatica spaccatura del partito. Un rischio, in ottica governo, mai come prima concreto: due anime nettamente distinte si agitano all’interno di uno schieramento che a parole si professa post-ideologico, ma che inevitabilmente dovrà prendere decisioni, affrontare delle scelte delicate in termini di migrazione, ius soli, testamento biologico,accoglienza ROM, legittima difesa, famiglia e più in generale su tutti quei temi di natura etica rispetto ai quali il movimento si è sempre mostrato ondivago e mai coeso, o più pavidamente defilato, per non esasperare le pericolose fibrillazioni interne. Con Di Maio il partito vira decisamente a destra e getta le basi per un’alleanza futuribile con la Lega in un possibile scenario di governo: una scelta inaccettabile per uomini e donne che portano con un sé un retaggio di sinistra e che in più di un’occasione hanno dissentito pubblicamente ( se non aspramente criticato ) le esternazioni di Grillo cui facevano eco le posizioni ufficiali di Di Maio ( che già parlava a nome del partito ). Creare un “duopolio ideologico” di fatto minerebbe la già precaria unità interna e promuovere un segretario di partito da contrapporre al prescelto di Pomigliano, lungi dal favorire la dialettica interna e riequilibrare lo sbilanciamento attuale, fornirebbe a tutti i detrattori del Premier una figura di riferimento fondamentale intorno a cui potrebbe compattarsi il dissidio interno ( magari per destituirlo un domani non troppo lontano). Grillo ha compreso i rischi che deriverebbero da una “visione troppo democratica del partito” e dunque ha scelto di concentrare il potere nelle mani di un solo uomo (e della sua corte di fedelissimi), secondo un modello inaugurato da Berlusconi e perfezionato da Renzi.