Questa periferia è scassata fuori e dentro. Divelte, scollate, sono le anime e le cose. Come i denti della donna che passando guarda Mosè e mi sorride sciatta. Gliene mancano due davanti. Ha poco più di trent’anni e abita le case popolari. Quel vuoto nero fra le labbra è intonato al contesto. Racconta una storia di pezzi che sfuggono. Pezzi importanti. Come la mano di un Dio qualunque sui pensieri della gente: potesse avviarli sulla strada del buon senso, ma sfuggono anche quelli.
E mi trovo a passeggiare fra relitti costruiti, rifiuti sparsi mischiati all’erba sequestrata nelle aiuole. Circondato da monumenti incompleti da anni, diroccati, semplice materia che non ha assunto forme architetturali. Nessuna funzione, nessuna utilità, nemmeno un’anima ad abitali. Strutture che mostrano un corpo scarno, con le ossa all’aria.
A vederle la prima volta, non sai dire se la loro crescita si è fermata a quello stadio, senza evolversi, o se invece, da vive che erano, sono state poi smembrate dall’incuria negl’anni.
La donna fissa il cane. Il suo sorriso rotto è mezzo coperto dalla mano che nasconde la vergogna, la sua mancanza in bocca e in tasca. Indossa jeans stanchi, consunti, e un giubbotto stretto, asciutto, che sa di poco in questo freddo atroce che ci ha colti all’improvviso. Mantiene una sigaretta di contrabbando fra le dita, mentre cammina svelta seguendo i nostri passi. Vuole tenere d’occhio il molosso dall’aspetto insolito. Lo guarda fra l’ammirazione e lo spavento, il desiderio e la paura. Di certo per lei è un alieno, un diversivo, in questa mattinata uguale ad altre, eccetto per il clima.
Ma fa davvero tanto freddo oggi.
E il cielo è gonfio di nuvole bianche. Lei cammina svelta anche per sfuggire ai pizzichi nelle ossa, per infilarsi in fretta in casa, nella cucina calda ai vapori di salsa. Punti di fiocchi scendono ondeggiando. Questo freddo inaspettato pulisce l’aria facendola più nitida, e mi figuro le polveri sottili, irrigidite dal gelo, cadere una ad una in terra, sfinite come guerrieri di un esercito sconfitto. Granelli di una guerra consumata all’aria e decretata al suolo, dove i piedi dei passanti danno il colpo di grazia a quelli solo tramortiti.
Ho freddo anch’io col passo svelto. Il cuore in bocca picchia i denti. Sono le vibrazioni emesse nella gola ad insidiare le gengive. Le sento intermittenti.
Davanti al porticato delle case popolari ci passo come un treno. Un minimarket espone merce sulle scale che vi danno accesso. Sono in carta rossa lucida, brillano di una triste sensazione di festa appena smessa. È ciò che resta del Natale, rimasugli, scarti, prodotti non comprati, scaduti, che adesso costano di meno.
Mosè si dirige al banco del pesce, mi tocca tirarlo per evitare che ne addenti uno, poi proseguo oltre con lui in anticipo sul mio passo. Ho la sensazione di avergli fatto del male. Questo asfalto non merita le sue zampe e nemmeno l’aria gli alveoli dei suoi polmoni.
È morto un ragazzo che conoscevo da tempo, proprio ieri l’ho saputo. Mi chiedo se sia l’aria a scambiarsi con Dio certe funzioni. Per me e per Mosè, voglio che sia un tribunale diverso dallo schifo pervasivo masticato, bevuto o respirate, a deciderne la fine.
Esplodo di rabbia a certi pensieri, ma il freddo comprime anche quella. Quindi seguo il Molosso che tira la fune di cuoio agganciata al collare. Ne raddrizzo ogni tanto la linea che devia, attratto da cose in terra, a destra o a sinistra. Lo fermo col polso, strattoni e voce in comando, lo tengo contratto.
I suoi magnifici boati vitali non sono per questo contesto. In questa prigione che lega gli umani, fanno scandalo le esplosioni di vita, figuriamoci se generate da un cane.
Soffre il Molosso e soffro con lui.
È nato in una tana di legno tarlato con dentro la paglia, immersa nel silenzio rurale di ottobre. Attorno alla madre c’erano terra, sole e raccolti, e nient’altro. Un sole amico dell’aria, amico della gente. Adesso, invece, è qui ad accompagnare un recluso, a stupirne altri mille, alleviando la noiosa esistenza di chi ha fatto dello scasso e i relitti la sua abitazione. Funge da prete consolatore. Si immola senza volerlo cedendo il suo tempo, il suo muso e i suoi occhi distanti, in cambio di cibo e di acqua, e intanto tira come un dannato deciso a vincere il mondo. Tira il Molosso.
Proseguo alla villa comunale. È aperta. Varco la soglia col cane ingordo di aria, ingordo di tutto. Non c’è nessuno, non vedo altre persone. Guardo meglio intorno girando col collo, ma proprio non scorgo altri dannati.
Mi faccio coraggio, lo slego. Mi pare di stare a sganciare una bomba nel centro affollato di gente, sento lo stesso senso di colpa. Non sono abituato ad osare. Nemmeno quando si è a rischio di scoppio. Ma lo faccio per lui, troppo pressato, ha bisogno di correre, di rilasciare nell’aria comune a tutti i polmoni, la sua fame di vita, il suo Amore Cane.
Non me ne vogliano a male i censori incalliti, coloro che tolgono ardore alle cose, gli intolleranti al coraggio e ai colori, i pittori esperti del grigio, ma quest’aria gelata, assieme alla rabbia, ha bloccato pure quella paura di osare, e quindi l’audacia trova spiraglio: «corri Mosè!».
Andrea Auletta