Se il signor Smith, dal film Matrix, potesse esprimersi sulla questione, direbbe sicuramente: <<“Terra dei fuochi” è solo una parola. L’importante è l’interazione che la parola comporta.>>.
Ci abbiamo provato in tanti modi a chiacchierare dell’hinterland napoletano: all’inizio forse eravamo solo zingari, emarginati ed esclusi, provincialotti e camorristi; poi siamo saliti di grado, siamo diventati “i triangoli della morte“; abbiamo vinto il premio “terra dei fuochi” qualche anno fa e adesso siamo ancora più virtuali, ci possiamo anche vantare di assomigliare a “Gomorra“.
Una no-fiction novel che si riempie di particolari e storie piene d’intensità, che racconta di una cupola di vetro in cui sono racchiuse tutte le persone accalappiate dall’incantesimo del medium: in un angolo le mamme disperate piangono tenendosi la testa tra le mani, alcune mostrano la fotografia dei loro piccoli scomparsi; dall’altro lato i ragazzi del parco verde prestano la loro immagine per il nuovo spot dell’8×1000.
Al centro un grande tavolo imbandito, lussuoso. Al posto del cibo, nei piatti, ci sono tagli da venti, cinquanta e cento euro; al posto del vino e dell’acqua si beve ipocrisia condensata, al sapore di sapone per avere la sensazione di essersene lavati la bocca. Seduti al tavolo ci sono proprio tutti: molti imprenditori, di quelli della miglior specie, timorosi di fronte a niente, disposti a vendersi madre e figli per uno spinello di potere; in ultimo (non per importanza) i rappresentati della menzogna clericale che, poverini, fanno il sacrificio di attendere ogni giorno un nuovo gingillo da portare al collo con fede e sudore.
Ma ecco che, con un dolly lento e drammatico, ci avviciniamo a Barbara D’Urso che intervista un sacerdote circondato da adepti che gli baciano le mani e lo dicono santo e capace di miracoli. Chi è questo sacerdote? Da cosa lo riconosciamo?
Un sacerdote lo si potrebbe riconoscere dall’abito, dal crocifisso oppure da ciò che predica e mette in pratica. Ebbene, non è il caso di questo sacerdote, che invece si può riconoscere da qualcosa di veramente assurdo: un quadrato fisso intorno alla faccia.
Si, giurerei di averlo visto solo e unicamente con un quadrato attorno alla faccia. E’ la cornice della televisione, la cornice del video pubblicato sul web, la cornice della fotografia in posa per la pubblicità, la cornice della fama e della popolarità a discapito di qualsiasi valore e messaggio.
Qualcuno dice di averlo guardato da vicino, di aver avuto la possibilità di parlare con lui.
Il pass per accedere alla visione di Don Maurizio? Essere d’accordo con lui. Non c’è altro modo per arrivare ad averci a che fare.
La cupola hanno cercato e cercano di sfondarla in molti: hanno cercato di entrare e scandagliare, di gridare a gran voce che i caivanesi non vogliono essere visti a “Striscia la notizia” ne a “Le iene” ne a “Pomeriggio Cinque”.
Anzi molti caivanesi non vorrebbero neanche parlarne di queste cose, non vorrebbero minimamente somigliarvi.
Molti caivanesi, come molti abitanti dell’hinterland napoletano, come molti casertani, come tutti i campani, come molti italiani, come molti esseri umani, sono stanchi.
Sottinteso che dire “molto”, insieme a “bene”, non è mai una questione di numeri.
Stanchi di essere solo personaggi virtuali, di ricevere contentini mediatici, stanchi di stare al centro dell’attenzione mentre agonizzano, stanchi dei fenomeni da baraccone -che in realtà non hanno mai colpa, fino a quando il denaro, l’immagine e il potere diventano più forti dell’Amore e della prossimità, più forti della realtà, di quello che accade davvero.
Stanchi che a Napoli (al centro, a pochi chilometri di distanza dall’hinterland) la maggior parte delle persone affermino di conoscere la terra dei fuochi senza tuttavia neanche minimamente immaginarsi la realtà dei fatti, senza mai aver toccato con mano quello che veramente accade; immobilizzati nella trappola dell’azione mediatica.
Perchè quello che accade, quello che stiamo pubblicizzando, quello di cui tanto chiacchieriamo, non sono i nostri problemi e la relativa soluzione, non è la morte a cui stiamo andando incontro: noi pubblicizziamo il simulacro della nostra realtà, la finzione, una mezza verità, i voli pindarici della nostra mente.
Pettegoli incontentabili, ce la prendiamo sempre con qualcuno, estrapoliamo tra i media l’immagine del nostro nemico e del nostro migliore amico, poi ce la stampiamo dritta nel cervello in HD. Mai, però, ci guardiamo allo specchio.
Mai guardiamo alla realtà dei fatti, mai scendiamo per strada; mai tiriamo fuori per le orecchie i potenti dai loro palazzi d’oro; mai ci inginocchiamo ad aiutare i bisognosi; ci umiliamo a favore del bene altrui e della comunità; presi come siamo a gestire la community. Anzi amiamo scendere a compromessi: con la prossima trasmissione televisiva; con i prossimi cento like su facebook; con il politico di turno a cui diamo del “tu” sopraffatti da un buonismo irritante, disumanizzante. Il politically correct.
E’ “il terrorismo delle chiacchiere” di cui parla Papa Francesco.
Sappiamo fare rumor, abbiamo saputo sempre farlo -e continueremo ad avere come unica interazione il litigio e la divisione, l’esaltazione del nostro ego, l’immagine sbagliata di quello che siamo.
Solo una parola. La terra dei fuochi.